Giuseppe Iannozzi

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Silvia Stucchi: intervista alla curatrice e traduttrice di “Lettera sul suicidio” di Lucio Anneo Seneca (Dehoniane) - di Iannozzi Giuseppe

Silvia Stucchi: intervista alla curatrice e traduttrice di “Lettera sul suicidio” di Lucio Anneo Seneca (Dehoniane) - di Iannozzi Giuseppe


Lucio Anneo
Seneca

LETTERA
SUL SUICIDIO

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Testi latini a fronte

A cura di
Silvia Stucchi

Lampi
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1. Il suicido, tema oggi più che mai attuale, dal latino sui caedere, vale a dire uccidere se stessi, non è cosa nuova, né in Occidente né nella cultura orientale. I più pensano che darsi la morte sia una libertà dell’uomo, una liberazione da una condizione non più sostenibile, a volte per colpa di una malattia non curabile. La Chiesa come si pone difronte a chi sceglie la morte anziché la sofferenza?

            In verità, il testo senecano è stato da me scelto non perché io sia un’esperta di etica, o bioetica, o di teologia, ma perché sono una latinista e credo che non esista figura più affascinante, pur nelle sue contraddizioni, di Seneca. In effetti, se si prova a chiedere a un filologo classico e uno studioso di letteratura  latina con quale autore, se potessero, vorrebbero scambiare quattro chiacchiere, qualcuno risponderà Cesare, altri Tacito o Petronio; qualcuno sarà catturato dal fascino di Catullo o dall’idea di fare una conversazione con il misteriosissimo Lucrezio. Ma, in ultima analisi, credo che tutti, ma proprio tutti, vorrebbero conoscere Seneca. Chi comanda è sempre solo: e Seneca lo sapeva benissimo, visto che si è trovato ai vertici dell’Impero per molto tempo, e impegnato con un princeps e allievo dal carattere diciamo un po’ particolare, assertivo, diremmo, come Nerone. Seneca era un uomo di intelligenza splendida, ma anche dalle contraddizioni innegabili: pensiamo alla Lettera 51 delle Epistulae morales ad Lucilium, dove biasima come superficiali i passatempi dell’élite socio-politica dell’Impero, che trascorreva i periodi di villeggiatura in località alla moda, come Baia. Ovviamente, se Seneca descrive e conosce così bene gli svaghi dei potenti, è perché anche lui vi ha preso parte, in qualche occasione…

            Ciò detto, il testo di Seneca della Lettera 70 è interessante perché ci propone una delle più ampie discussioni su un problema, quello del suicidio e della libertà del sapiens, che l’etica stoica – e tutta l’etica antica, in verità, – valutava come primario, in un momento in cui essa non era una alternativa all’etica cristiana, visto che ci troviamo in un contesto pre-cristiano. Il cristianesimo all’epoca è già diffuso a Roma (probabilmente in quegli stessi anni in cui Seneca mette mano alle Lettere a Lucilio, Paolo è nell’Urbe: ma attenzione, Seneca scrive le Epistulae ad Lucilium con ogni probabilità dal 62 al 65, anno della sua morte, quando ormai è avvenuto il suo ritiro a vita privata, e probabilmente deve avere tenuto in quegli anni un profilo bassissimo, limitando le sue apparizioni pubbliche e forse, possiamo immaginare, trattenendosi più nelle sue ville e dimore suburbane che a Roma). Il Cristianesimo, invece, è ancora un culto minoritario, che balzerà agli onori della cronaca con la persecuzione del 64; del resto, ancora cinquant’anni dopo Plinio il Giovane, nella famosa Lettera a Traiano (epist. 10, 96), sul trattamento dei cristiani e sui processi istituiti a loro carico, dimostrerà che, agli occhi di chi non segue la nuova religione, i principi del Cristianesimo sono ancora piuttosto vaghi, e Plinio stesso non riesce a coglierne lo specifico.

            Diciamo allora che il testo della Lettera 70 ci fa capire molte cose, come pure quello, per esempio della Lettera 41, a proposito della natura della divinità: da un lato, lo Stoicismo ha innegabilmente inciso e contribuito a plasmare l’etica cristiana. Del resto, il “mito” della sopportazione del dolore e della sofferenza, del sacrificio in nome di un bene comune, della pronoia, di una forma di Provvidenza, sono tutti elementi ancora a noi familiari (pensiamo anche al modo di dire banalizzato che usiamo spesso, “sopportare stoicamente”, “sii stoico”, e simili). Tuttavia, ci sono anche profondissime differenze, proprio inconciliabili: è vero che il Dio di Seneca intus est, è “dentro di noi”, anche se la sua presenza viene percepita magari con più acutezza in contesti dove la solennità di certi ambienti naturali (grandi foreste con piante secolari, paesaggi maestosi, etc.) sembra esaltare la sua potenza creatrice e dove si avverte un senso di numinoso. Però è anche vero che lo Stoico di stretta osservanza crede che, con l’esercizio strenuo, l’uomo, o meglio, il sapiens, non solo possa elevarsi al di sopra della massa, ma persino essere superiore alla divinità, perché quella perfezione che la divinità possiede per statuto, il sapiens l’ha dolorosamente conquistata, a prezzo di rinunce e di una autoeducazione severa, un tratto che per noi si connota come hybris, come “tracotanza”. E, del resto, il messaggio dello Stoicismo è un messaggio elitario: non tutti sono adatti a recepirlo, a sostenerne le richieste, e il saggio deve essere  consapevole che la cosa più disumanizzante è la folla, la massa, con le sue passioni vergognose e turpi: quella, davvero, è irredimibile.

LEGGI TUTTA  L'INTERVISTA:

https://iannozzigiuseppe.wordpress.com/2018/07/27/silvia-stucchi-intervista-alla-curatrice-e-traduttrice-di-lettera-sul-suicidio-di-lucio-anneo-seneca-dehoniane/

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